Soluzione Group - L'etica dell'influencer a cura di Camilla Bellini

L’etica nell’influencer marketing: tra trasparenza e tentativi di washing

Di influencer marketing si parla spesso con un’accezione negativa, tra chi lo rilega a una moda del momento e chi cerca incessantemente di affossarne i meriti e le conquiste.
I numeri e un’analisi attenta del sentiment intorno all’influencer marketing ci proiettano però verso un’altra dimensione, quella cioè di un mercato maturo. L’influencer marketing è entrato di fatto e di diritto all’interno del marketing mix delle aziende, con dei budget sempre più considerevoli.

Gli influencer, tra oneri e onori, rappresentano una categoria lavorativa importante, sia tra le file del marketing che tra quelle della comunicazione e della creatività pubblicitaria. Il content creator vale e sa di avere un valore che va oltre il cachet che chiede per una collaborazione, perché si fa forte del suo capitale social(e). E tutto il settore dell’influencing rappresenta un traino positivo per l’intera digital industry.

Da grandi numeri derivano quindi grandi responsabilità. Una responsabilità di cui bisogna tener conto agli occhi delle aziende e della propria community. Secondo le disposizioni del Codice di Consumo a tutela dei consumatori, le collaborazioni di natura promozionale vanno palesate chiaramente sui canali utilizzati dai creator, seguendo accordi stabiliti da un contratto tra le parti. Il tema della trasparenza è però più ampio e abbraccia i reali intenti delle aziende e alcune dinamiche di washing.

Maggiore è la sensibilità delle persone in merito a questioni ambientali e sociali in un determinato mercato, maggiore sarà il rischio che aziende legate a dinamiche di profitto poco virtuose se ne approfittino. Succede quindi che i brand promuovano un prodotto o un servizio facendo credere ai consumatori di essere interessati a tematiche a forte impatto sociale. Ad esempio, l’ambiente e i diritti della comunità LGBT+ sono i temi caldi sui quali vengono orchestrate numerose attività di marketing “a orologeria”, in prossimità cioè di ricorrenze come la giornata mondiale della Terra o il mese del Pride. A questi due fenomeni specifici sono stati dati i nomi di greenwashing e rainbow washing.

Il primo fenomeno, il greenwashing, è un ambientalismo di facciata, un finto ambientalismo. Si tratta di una serie di strategie di storytelling che mirano a presentare come ecosostenibili le proprie attività, tralasciando gli aspetti rovinosi che vengono perpetrati per realizzarle. Uno degli step di queste strategie può comprendere il ricorrere alla comunicazione degli influencer, per crescere l’eco e la risonanza mediatica di una determinata attività o di uno specifico prodotto. Ma gli influencer sono sempre consapevoli dell’impatto ambientale che hanno i prodotti o le aziende con cui collaborano? Sposano davvero una causa che profuma di ambientalismo? Firmano un contratto che prevede di sbandierare dei valori solo a comando? La questione è importante perché queste figure non solo influenzano le scelte d’acquisto e i gusti, ma anche le sensibilità e le reazioni alle cause sociali.

Similare è la dinamica del rainbow washing, ovvero quando il marketing si insinua nel mondo dei diritti umani e cavalca puntualmente dei trend stagionali. Aziende che aggiornano la foto profilo sui social con la bandiera arcobaleno per sostenere la lotta alle ingiustizie, ma che non intraprendono azioni concrete che siano di impatto sulla società o sul loro organico interno. Un intento commerciale o all’insegna del “tutto fa branding” senza alcun risvolto pragmatico, senza la volontà di dare il proprio contributo verso la risoluzione o l’alleggerimento di una tensione sociale. Senza un purpose che orienti a più livelli la bussola amministrativa e finanziaria di un’azienda, sarà sempre più complesso riuscire a fare breccia nel cuore e nelle tasche dei consumatori.

L’influencer marketing è una modalità di promozione capace di intercettare nuovi target di consumatori, migliorando la percezione del brand o aumentandone l’awareness. L’etica che si pretende da un influencer in relazione ai prodotti e ai brand che sceglie di sponsorizzare dovrebbe essere la medesima richiesta proprio alle aziende. Non un attivismo all’occorrenza, ma dinamiche aziendali che superino le dichiarazioni di intenti in favore di strategie mirate nelle quali un consumatore si può proiettare e di cui anzi si deve sentire parte attiva.

Una prima risposta a questo problema del washing sembravano avercela i de-influencer, che smascherano le aziende furbette, consigliano cosa non comprare e recensiscono i prodotti più restituiti dai clienti. Basta il de-influencing? Certo che no, serve una presa di coscienza maggiore da parte dei consumatori e un maggiore attivismo concreto da parte dei brand. E l’etica, che non guasta mai.

 

A cura di Camilla Bellini,  Designer, Design Blogger e Influencer